Fin dalle origini le classi dominanti di ogni società umana, intesa come aggregazione politica, si sono appropriate della musica come mezzo per pilotare le coscienze. Si ha notizia che nell’antico Egitto vi fosse una ferrea dittatura della casta sacerdotale nella scelta e nell’uso di musiche per il rito e le cerimonie più importanti, con musicisti professionisti rigidamente reclutati, unici depositari di antiche ed esoteriche tecniche tradizionali. Il loro servizio si svolgeva in momenti forti della vita politica e militare del regno, con importanti ricadute sul sentire comune della popolazione. Per i popoli della regione Mesopotamica era consuetudine che alcuni musicisti accompagnassero regolarmente le truppe in battaglia, avendo compreso quanto la psicologia e la combattività del soldato medio ne fossero grandemente influenzate e accresciute. Israele, grande teocrazia politica, adoperò l’intensa pratica musicale ereditata dalla prestigiosa tradizione davidica sia come preghiera nel tempio sia come decisivo fattore ‘politico’ capace di unificare, specie nella prima fase della sua storia, le diverse anime della convivenza civile divisa in tribù. E così, nei secoli, il cammino dell’occidente si è arricchito di fenomeni politico-musicali di assoluto rilievo. La fantastica parabola storica di Venezia si caratterizza per le crescenti cure che l’oligarchia al potere, specialmente tra XVI e XVII sec., dedicò alla cappella musicale della Basilica di S. Marco - che, ricordiamolo, non è la cattedrale vescovile sede del Cardinale Patriarca - quale simbolico fulcro identitario della Serenissima. Istituita con il compito di celebrare gli avvenimenti della vita della Repubblica, come festività civili, anniversari, visite di re e ambasciatori, vittorie militari ecc., la cappella marciana vide infatti avvicendarsi, nelle cariche di maestri direttori e di organisti, compositori del calibro di Willaert, Monteverdi, Cavalli, Legrenzi, Andrea e Giovanni Gabrieli. La fama di cui era ammantata si basava sulla bravura dei suoi artisti, numerosi e preparatissimi, sulla qualità delle musiche che vi si componevano e, naturalmente, sul prestigio di essere il contesto nel quale avvenivano leggendarie esecuzioni, riportate dalle cronache storiche. Il fattore politico era quindi intrinseco alla musica, intesa come il sonoro della vita sociale dei cittadini. Massima manifestazione, le musiche che Andrea Gabrieli compose ed eseguì con la Cappella per la vittoria riportata contro i Turchi a Lepanto, nel 1517. Ma il rapporto tra musica e politica, nel corso dei secoli, ha subito solo di recente un vero importante cambiamento che ne ha instradato la relazione su altri binari. Restando beninteso che religione e convivenza umana hanno sfruttato ogni potenzialità dell’arte dei suoni, la politica ha continuato ad avere con essa un rapporto nascosto, proibito, quasi equivoco, fino all’indubbio punto di rottura, gravido di enormi ricadute nella vita delle persone - assolutamente ignorate dai più - rappresentato dalla Grande Rivoluzione francese di fine ‘700. Il suo sconvolgere i rapporti tra le classi e la sua innegabile natura borghese e secolare non hanno fatto altro che evidenziare questa strana, particolare relazione, portandola ad emergere nei decenni successivi quando, sedimentata una sorta di silenziosa complicità, l’uso politico della musica, dal suo abituale proseguire il proprio cammino sotto traccia, emerse alla luce del sole. La società d’inizio ‘800, dapprima napoleonica, poi momentaneamente ma inutilmente soffocata dalla Restaurazione, diede vita ad istanze fino a quel momento inaudite nella civiltà europea. Il primo caso della nuova atmosfera è l’unica opera lirica scritta da Beethoven: Fidelio. Il soggetto tratta le vicissitudini di una donna (Leonora) che si traveste da uomo (Fidelio) per entrare come secondino nel carcere dove suo marito è stato rinchiuso illegalmente da un avversario politico e tentare di salvarlo da morte certa. La vicenda vedrà il trionfo finale della giustizia e la liberazione di lui e di tutti gli altri prigionieri. In un’epoca dove l’opera italiana la fa da padrona, con i suoi intrighi amorosi, giochi galanti, equivoci e scontate avventure - il tutto onestamente riconducibile ad una tradizione stantia - Beethoven sceglie di scrivere la sua musica su un libretto completamente diverso. Un amore coniugale narrato con forte pregnanza etica che, trasfigurato dal canto e dall’orchestra, si fa promotore di libertà, di giustizia capace di far prevalere la civile convivenza sulla tirannia. Nonostante il fiasco della prima, e dopo doverosi aggiustamenti e accorciamenti operati saggiamente dal Maestro, finalmente nel 1814 il pieno successo arride a questa pagina unica e importante della storia musicale. Straordinariamente significativa, verso la fine del I atto, l’uscita nel cortile, all’aria aperta, dei prigionieri e la vista del sole. La visione poetica di Beethoven è quella dell’‘homo novus’, dell’artista che, ormai affrancato dal dover offrire e rispondere del proprio lavoro al potente che lo mantiene alla sua corte, sceglie liberamente cosa dire e come, assumendosi la responsabilità di gettare luce sulla vita delle persone e del loro rapporto col potere. L’antico detto “vox populi, vox Dei” è la proprietà reale di questa nuova atmosfera. Non credo all’equazione netta musicista-compositore = rivoluzionario politico. Certo è che dal 1830 circa i musicisti compositori sono diventati i latori privilegiati delle istanze più diffuse tra la gente, grazie anche al diffondersi nella musica dei sentimenti romantici innescati dal cenacolo di Jena a fine XVIII sec. Fryderyk Chopin vive sulla propria pelle la sofferenza del popolo polacco che anela alla libertà dal giogo russo. Lo Sturm und Drang si trasforma in messaggio di denuncia e di forte rivolta alla tirannia in alcuni suoi pezzi, come lo Studio op.10 n.12, il Preludio op.28 n.20, le Polacche. La lotta per il bene comune, la ricerca della libertà e dell’indipendenza, sono caratteristiche di autori di tante regioni d’Europa, che vivono il travaglio della trasformazione geopolitica verso la modernità con la voglia di diventare stati autonomi, con una forte identità nazionale e un’adeguata dignità linguistica, sociale e culturale. Il caso dell’Ungheria è emblematico. Da regno satellite unito alla corona degli Asburgo assurge, grazie ad artisti come Franz Liszt, all’attenzione del continente, sia come entità politica sia come fucina intellettuale. Il Maestro scrive numerose Rapsodie e brani a programma storico che ne illustrano le antiche prestigiose radici e la forza esplosiva della sua musica popolare. Fondatore e direttore del Conservatorio di Budapest, del quale rimarrà sempre il motore, aiuta gli Ungheresi ad acquisire una piena coscienza del proprio retaggio e a guadagnare il rispetto di Vienna. Anche il rinnovamento culturale delle grandi nazioni si profila con la maturazione dell’arte dei suoi figli più talentuosi. Nel 1813 nascono Wagner e Verdi. Il rapporto di Wagner con la politica comincia realmente nel 1848 quando diventano strettissimi i suoi legami sia con i nazionalisti tedeschi, che rivendicano il superamento della parcellizzazione politica della gens germanica con l’unificazione in unico reich, sia con personalità rivoluzionarie di assoluto rilievo come Bakunin. La partecipazione ai moti di popolo lo rende bersaglio delle polizie tedesche e lo costringe all’esilio, con ultimo approdo la Svizzera. A Wagner sta a cuore che la Germania diventi padrona del proprio destino, in grado di parlare con una voce sola, che fruttifichi i magnifici esiti dei vastissimi orizzonti aperti dalle sue arti. Un anelito che lo vedrà impegnato attraverso la musica alla creazione di una gesamtkunstwerk - opera d’arte totale - pienamente tedesca, che sia il luogo del popolo, il sonoro dell’amata heimat, la patria. Quando negli ultimi anni vede levarsi all’orizzonte l’egemonia della Prussia di Bismarck, che ingloba tutti gli stati tedeschi, Wagner rifiuta di identificarsi pienamente in quel regime che con la forza militare e l’inganno politico - addirittura col regicidio, secondo alcuni, come per la Baviera - ha sì unito il paese, ma ne ha distorto le inflessioni positive e soffocato la libertà. In Italia, il fattore politico unificante della musica di Verdi si alimenta pian piano che la situazione politica evolve verso l’unificazione. Certo è che la musica del Maestro, in privilegiato contatto col diffuso - per quanto ispirato da poche menti intellettuali - sentire del popolo, proietta sulla nazione, ancora divisa, un profondo messaggio assolutamente comune, fatto di sentimenti, pensieri e sensazioni largamente condivisi, che portano il loro importante contributo all’ appuntamento storico dell’ unità. E, come abbiamo detto all’inizio di quest’analisi, è assodato che chi dall’alto ha spinto per innescare questo meccanismo - probabilmente lo stesso Cavour - non ha esitato a sfruttare con un intento propagandistico il teatro verdiano per influenzare le coscienze. Un teatro che, figlio di una grande tradizione a vocazione europea, si trasforma in ‘teatro nazionale’. L’adesione politica di Verdi, attuatasi con la partecipazione diretta del Maestro alla vita parlamentare del neonato Regno, conferma quanto sia necessario il coinvolgimento diretto delle menti più elevate di un paese alla politica attiva - anche se relativamente influente nelle decisioni finali - evidenziando che la mancata partecipazione recide un ganglio vitale della convivenza sociale. Il ‘900, non solo in Italia ma in tutta l’Europa, terrà a mente troppo poco questa verità.
Paolo Brecciaroli (Riproduzione vietata)